Il ritorno delle “parole che feriscono”

da | Gen 31, 2022 | Approfondimenti

 

Il ritorno delle “parole che feriscono”

a cura di Federico Faloppa

 

Questo non è normale. È il titolo di un recente libro di Laura Boldrini sulla violenza sulle donne e sulla misoginia nel nostro Paese. Ma potrebbe anche essere un titolo da dare a questa sesta Mappa dell’intolleranza realizzata da Vox Diritti in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Bari Aldo Moro, Sapienza – Università di Roma e IT’STIME dell’Università Cattolica di Milano e con il contributo di GIULIA Giornaliste.

Non è normale che, rispetto a una diminuzione dei tweet raccolti e analizzati si registri un aumento della percentuale di tweet ‘negativi’ se non di incitamento all’odio verso persone o gruppi di persone. Da un paio d’anni, infatti, si registra una diminuzione del numero complessivo di tweet ‘d’odio’: un dato che si potrebbe anche accogliere con soddisfazione. Se non fosse che, al contempo, si registra un crescente aumento della percentuale di tweet offensivi, denigratori, violenti rispetto al totale dei tweet. Diminuisce la quantità complessiva, ma non la qualità – se si può dire così – né i picchi degli attacchi e delle discriminazioni a mezzo social. Una tendenza alla radicalizzazione dei discorsi d’odio che, pur non sovrapponendosi ad essa, fa il paio con la radicalizzazione di idee dell’opinione pubblica, come rilevato in altre sedi anche dai lavori di Walter Quattrociocchi e del suo team di analist*. Una radicalizzazione che la seconda fase della pandemia sembra aver vieppiù accentuato, con i suoi complottismi, la sua circolazione di false notizie, le sue camere dell’eco sempre più stagne, la ricerca costante di un ‘nemico’ verso il quale rovesciare la propria rabbia, la facilità e rapidità con cui si insultano e si aggrediscono le persone, soprattutto quelle che neppure si conoscono ma che per qualche motivo – visibilità, fatti di cronaca, ricorrenze – finiscono sul radar dei livorosi da tastiera.

Non è normale che, malgrado i moltissimi sforzi nel monitorare, studiare, contrastare il fenomeno dei discorsi d’odio siamo ancora qui a registrare una misoginia tanto forte, diffusa, radicata quanto verbalizzata, espressa, sbandierata. O meglio, non dovrebbe essere normale. Perché nel paese dei femminicidi quotidiani, dei vergognosi attacchi ad personam alle donne che si espongono in politica, nei media, nella vita sociale e culturale, il lavoro non solo di decostruzione degli stereotipi di genere, ma anche di contrasto al maschilismo soffocante, retrivo, grevemente goliardico quando non violento di cui è intrisa la Penisola e di cui sono portatori molti degli uomini della mia generazione è ancora, soltanto, agli inizi. Tanto, tantissimo resta ancora da fare per togliere, toglierci dalla testa che non siamo i padroni incontrastati delle relazioni, che non è un diritto acquisito prevaricare, sbeffeggiare, ridicolizzare le donne, ma soltanto la dimostrazione di una nostra maschile deficienza. Una deficienza tanto più evidente quanto più coperta dal rumore dei discorsi d’odio e dall’aggressività che ogni giorno si riversano sia nel sessismo da tastiera sia in quello offline. No, non è né può essere normale.

Come non è normale che la nostra lettura della realtà – e il nostro modo di raccontarcela, a partire dai social – si fermi spesso alle immagini stereotipate ereditate da tanti, troppi anni di cattiva informazione e di mancanza di senso critico. Penso ai soliti stereotipi sui musulmani e sulle musulmane, dentro e fuori l’Italia, e alla nostra incapacità di accettare la realtà complessa e cangiante del nostro Paese, dove ad esempio tante associazioni di giovani musulman* stanno costruendo – spesso a fatica, scontrandosi con chiusure istituzionali e pregiudizi diffusi – ponti di dialogo interreligiosi, intergenerazionali e interculturali su cui poter costruire tutt* insieme un’idea nuova di cittadinanza. Siamo invece fermi alle generalizzazioni del “sono tutt* terrorist*”, come lo sciame di tweet islamofobi circolati intorno al ventennale dell’11 settembre sembra dimostrare. Siamo ancorati a caricature che non fanno più ridere, se mai hanno fatto ridere. Siamo affezionati all’idea immaginaria di un nemico (esterno) che non esiste, per il semplice fatto che l’Italia e già, al suo interno, un Paese multi-religioso, che un islam ‘italiano’ è già nelle cose, nella vita delle persone, nella geografia dei luoghi in cui viviamo.

Non è normale, soprattutto, che si sia normalizzato, nel linguaggio, non soltanto il livore, l’astio, la costante continua tensione ad aggredire il prossimo: che si sia normalizzato l’insulto non in quanto tale (quello esiste da sempre), ma come unica alternativa al confronto – anche aspro – tra argomenti, idee, persone. Come non è normale – o meglio, non dovrebbe essere normale – che dopo anni di mischie e baruffe, invece di risalire la china, fermarci a pensare un momento non solo a che cosa diciamo ma a come lo diciamo, riprendere uno straccio di ragionamento, si ricorra a un campionario sempre più variegato e desemantizzato di termini offensivi, infamanti, degradanti, de-umanizzanti.

Non è normale che le “parole che feriscono” – per citare Tullio De Mauro – rivolte alle persone con disabilità siano uscite dalla porta qualche anno fa (anche grazie a una maggiore consapevolezza rispetto alla stessa idea di ‘disabilità’, ai limiti evidenti del concetto di ‘normalità’, alla ricchezza e alla complessità della vita delle persone, che non possono né vogliono essere ridotte a etichette o peggio ancora a patologie) ma stiano rientrando dalla finestra. Ce lo fa capire l’impennata imprevista della frequenza di parole ed espressioni come ‘mongoloide’, ‘decerebrato’, ‘handicappato mentale’, usate soprattutto come epiteti generici per colpire chiunque non la pensi come noi (per colpirsi, ad esempio, tra Si vax e No vax). E la domanda è: vengono avvertite come insulti generici, desemantizzati, o fanno invece venire a galla, attraverso la similitudine, un disprezzo (mai sopito?) per le persone ritenute diverse, ‘disabili’?

Che sia livida sciatteria o nuova articolazione di un discorso d’odio che si rifocalizza, la spia è comunque preoccupante. E non può non farci riflettere, se vogliamo continuare a dirci che no, tutto questo non è né può essere normale.