Crimini d’odio contro le donne: il modello patriarcale nel sistema penale italiano

da | Mar 9, 2021 | Approfondimenti

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I discorsi e i crimini d’odio sulla base del genere affondano le radici in una cultura patriarcale che li legittima e giustifica.
La Commissione parlamentare Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, istituita il 10 maggio 2016, nella sua relazione finale del 2017 evidenzia: “Esiste un nesso tra i discorsi d’odio e i crimini d’odio, così come tra discorso d’odio e discriminazione. Infatti, da una parte, il discorso d’odio è una forma estrema di intolleranza che se non contrastata può contribuire a creare un ambiente favorevole al verificarsi di crimini d’odio; dall’altra, esso segnala, il più delle volte, il radicamento di vere e proprie forme di discriminazione nei confronti dei soggetti colpiti”.

Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’1 ottobre 2020 ha nuovamente bocciato l’Italia per il permanere di ostacoli alla giustizia nei confronti della violenza sulle donne e perché nonostante gli sforzi “i pregiudizi e gli atteggiamenti che alimentano ancora la violenza e la discriminazione di genere persistono in Italia”.
La cultura italiana – sociale e giuridica – non si è ancora emancipata da un modello patriarcale e violento. Il movimento di liberazione della donna degli anni Sessanta e Settanta ha portato a profonde rivoluzioni nel sistema giuridico e sociale, quali la legge sul divorzio n. 898 del 1970, la riforma del diritto di famiglia attuata con la legge n. 151 del 1975, la legge n. 194 del 1978 sulla tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria di gravidanza, nonché le leggi a tutela delle donne lavoratrici, in nome di quella parità tra i sessi e tra marito e moglie proclamata già nel 1948 dall’art. 3 e dall’art. 29 della nostra Costituzione e solo assai tardivamente attuata.
Tuttavia, il sistema culturale e sociale appare ancor oggi ben lontano dall’effettivo riconoscimento della donna quale soggetto e della sua parità rispetto all’uomo.

Anni 80 e 90: delitto d’onore, adulterio, violenza

Il modello patriarcale e violento era giustificato e istituzionalizzato dal nostro codice penale del 1930, e gli interventi a modifica di tale assetto possono ritenersi ancora troppo recenti, per considerarsi pienamente assimilati e condivisi dal sentire sociale. L’art. 587 del codice penale, che prevedeva una consistente diminuzione di pena per chi uccide la figlia, la sorella o il coniuge sorpreso con l’amante (c.d. delitto d’onore), è stato abrogato solo nel 1981 con la legge n. 442 del 5 agosto. E solo con la legge 24/11/1981 si è prevista la sostituzione nelle norme codicistiche dell’espressione “patria potestà” con “potestà dei genitori”.
Particolarmente significativo appare il lungo, difficile percorso che ha portato all’abrogazione del delitto di adulterio. Il codice penale puniva l’adulterio commesso dalla donna, con la reclusione fino ad un anno se occasionale, e fino a due anni se trattavasi di “relazione adulterina” (art. 559 codice penale). L’adulterio commesso dal marito, sia occasionale che continuativo, non era punito; solo nel caso che egli arrivasse a tenere «una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove» scattava l’ipotesi delittuosa (art. 560 codice penale). Nel 1961 la Corte Costituzionale respinse la questione di legittimità costituzionale della norma e, richiamandosi alle valutazioni compiute dal legislatore del 1930 e sulla base della comune coscienza sociale, affermò che l’adulterio della moglie era ben più grave rispetto a quello del marito (Corte Costituzionale 23/11/1961).
Si dovette attendere il 1968, allorquando la Corte Costituzionale, con due sentenze di portata storica, dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 599 codice penale (n. 126 del 19/12/68 – n.147 del 3/12/69), riconoscendone il contrasto con il principio di eguaglianza tra i coniugi sancito dall’art. 29 della Costituzione. Una decisione che lasciò divisa l’opinione pubblica, con numerose prese di posizione contrarie da parte di esponenti del mondo politico e sociale.

Quanto alla considerazione sociale e giuridica del reato di violenza sessuale, solo con la legge n. 66 del 1996 esso è stato rubricato come delitto contro la libertà sessuale e inserito tra i reati contro la persona: fino a tale novella legislativa, infatti, lo stupro era punito non in relazione al soggetto vittima, bensì in quanto comportamento contro la morale pubblica. E solo con suddetta riforma il reato di violenza sessuale ha introdotto, all’art. 609 bis codice penale, il concetto unitario di “atti sessuali”, cancellando la previgente distinzione tra “congiunzione carnale” e “atti di libidine”, che obbligava la vittima della violenza ad odiosi ed umilianti approfondimenti in sede testimoniale.

Il perdurare di una concezione che giustifica l’uso della violenza nei contesti familiari è ben rappresentata dal fatto che il nostro codice penale contempli ancora la possibilità di usare metodi di correzione violenti, punendone con l’art. 571 c.p. solo l’abuso e con pene considerevolmente diminuite in caso di lesione o morte. Ancora negli anni ’60 la giurisprudenza della Corte di Cassazione era concorde nel riconoscere al marito il diritto di usare nei confronti della moglie una vis modica che soltanto se eccessiva, poteva tradursi in fatti aventi rilevanza penale. Ed ancor oggi si discute se, per quanto riguarda i figli minori, possa ritenersi lecito l’uso di una vis modica a fini educativi.

Anni 2000: stalking

Un notevole avanzamento nel contrasto alle discriminazioni contro le donne e, più in generale, fondate su identità di genere e orientamento sessuale, era contenuto nel disegno di legge governativo n. 2169 del 2007 che proponeva tre livelli integrati di intervento: misure di sensibilizzazione e prevenzione contro la violenza in famiglia, riconoscimento dei diritti delle vittime della violenza, rafforzamento della tutela penale e ampliamento della tutela processuale sia penale che civile.
Il disegno di legge prevedeva anche l’estensione dei reati di cui alla c.d. Legge Mancino (n. 205 del 1993) alle discriminazioni fondate “sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.
E’ stato attuato dal legislatore solo parzialmente con il decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” convertito dalla legge n. 38 del 23 aprile 2009) che ha introdotto nel codice penale con l’art.612 bis la punizione degli “atti persecutori”, sulla falsariga delle normative estere sullo stalking, con lo scopo di sanzionare gli episodi di molestie e minacce reiterati, prima che queste possano degenerare in condotte ancora più gravi, quali violenze sessuali, lesioni o addirittura l’omicidio.
L’intervento attuato dal Legislatore con la legge n. 38 del 23/4/2009 è stato sicuramente importante e significativo. Tuttavia, l’avere limitato sostanzialmente la riforma alla previsione di una nuova fattispecie penale e a forme di protezione della vittima, tralasciando completamente l’introduzione di misure volte all’aspetto educativo e culturale, ripropone, ancora una volta, lo schema di un modello repressivo, ossia post factum, invece che attuare un sistema di prevenzione.
Inoltre, è rimasta lettera morta la proposta di estendere i reati di cui alla c.d. Legge Mancino alle discriminazioni fondate sulla identità di genere e sull’orientamento sessuale.

Anni recenti: la mancata tutela delle discriminazioni di genere e di orientamento sessuale

Il permanere di una visione discriminatoria nei confronti delle donne e, più in generale, in relazione all’identità di genere e all’orientamento sessuale, connota in modo plateale anche le più recenti riforme legislative, che pur costituiscono importanti avamposti a tutela dei diritti fondamentali.
Il decreto legislativo n.21 del 21 marzo 2018 ha introdotto nel nostro codice penale i “Delitti contro l’eguaglianza”: l’art.604 bis c.p. punisce le condotte di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, nonché la commissione o l’istigazione a commettere atti di violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, sancisce il divieto di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. L’art. 604 ter c.p. prevede una circostanza aggravante generica, applicabile a tutti i reati commessi con le finalità di discriminazione etnica, razziale e religiosa indicate, ovvero per agevolare le associazioni destinate al medesimo scopo.
Ebbene: anche con questa importante novella legislativa, non si sono prese in considerazione le condotte di discriminazione fondate sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale.

Così pure la successiva legge n.69 del 19 luglio 2019 che ha introdotto modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, ha esteso la disciplina dei c.d. crimini d’odio e discorsi d’odio alle discriminazioni fondate sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale.
In questo quadro normativo ancora inadeguato, una importante riforma potrebbe derivare dalla proposta di legge c.d. Zan, approvata dalla Camera il 5 novembre 2020, che estende l’applicazione degli artt.604 bis e 604 ter del codice penale all’ istigazione a delinquere e agli atti discriminatori e violenti fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o disabilità., e introduce misure di prevenzione e educazione. Con tale riforma si colmerebbe finalmente il vuoto di tutela contro i crimini d’odio di genere, segnando uno storico superamento del modello patriarcale.

Avvocata Monica Gazzola