A pochi giorni di distanza dal 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, l’ex senatore Vincenzo D’Anna ridisegna i confini del linguaggio dell’odio.
Sotto un post del Corriere della Sera, l’ex senatore scrive “Perché c’è a chi piace cruda ed a chi cotta la moglie”. Il post era dedicato a Valentina Pitzalis, vittima di violenza di genere e di tentato femminicidio da parte del suo ex marito, che nel 2011 la attirò con una scusa nella loro casa a Bacu Abis in Sardegna, la cosparse di benzina e le diede fuoco, tentando di ucciderla. Lei sopravvisse, ma con ustioni di terzo grado su oltre l’80% del corpo che le causarono la perdita della mano sinistra, gravi cicatrici permanenti e un lungo percorso di riabilitazione fisica e psicologica.
Oggi, a 42 anni, è un’attivista quotidianamente impegnata contro la violenza di genere, autrice del libro “Nessuno può toglierti il sorriso” e collaboratrice di associazioni come “Fare x Bene”, sensibilizzando migliaia di persone tramite i social.
Il linguaggio dell’odio continua a mutare, e si appropria anche di aggettivi che sembrano appartenere solo al dominio culinario in funzione del dominio maschile. Misoginia e sessismo continuano a vittimizzare doppiamente la donna con appellativi che varcano il confine delle cucine stellate a cui siamo abituati, trasferendo epiteti come “crudo” o “cotto” – solitamente assegnati al tipo di preparazione di una pietanza – da un oggetto ad una persona.
L’appropriazione linguistica trasforma la cucina – spazio storicamente imposto alla donna come regno di sottomissione – in uno spazio di violenza simbolica, dove termini apparentemente innocui diventano lame affilate utili a smembrare l’identità femminile. In un discorso di questo tipo, la donna viene ridotta ad oggetto (una pietanza), animale (carne cotta o cruda), qualcosa di cui il dominio maschile può cibarsi, può consumare e con cui può continuare a sostenersi. È un’evoluzione subdola dell’odio, che infetta il lessico quotidiano, rendendo la misoginia facilmente “digeribile”.
L’analogia alimentare, poi, evoca implicitamente processi di macellazione o preparazione di carne animale, suggerendo che la donna sia trattabile come un animale da cucina o come una preda sessuale.
Una donna, moglie, preda, non più al sicuro nemmeno nel luogo domestico a cui l’uomo stesso vuole relegarla. Senza più voce, spazio, ruolo e identità la donna – essenza ridotta a ingrediente passivo – assume forma inconsistente e vulnerabile, la ricetta perfetta per la radicalizzazione del potere maschile nelle sue forme più evidenti.
La donna è tutto, persino cruda o cotta, fuorché umana.
Considerando la storia di Valentina Pitzalis, l’uso osceno delle parole d’odio sotto un post social di un quotidiano rende quelle espressioni ancora più orripilanti, perchè minimizza il passato violento e abusante della donna e legittima una tragica normalizzazione della violenza di genere.
Banalizzazione, deumanizzazione, animalizzazione, sessualizzazione sono dinamiche dell’odio che discriminano la donna in ogni dimensione della sua esistenza, sovrapponendosi e comprendendosi l’una nell’altra.
Tutto questa complessità intrinseca ai fenomeni d’odio può mai essere “solo” uno scherzo? Il problema è endemico e sempre più persistente, specialmente laddove le affermazioni dell’odio perpetuano una cultura in cui l’abuso è “accettabile” ed oggetto di black humor in contesti pubblici e online, con l’obiettivo di diluire la gravità e rendere più difficile la condanna sociale di alcune espressioni.
Negli ultimi tempi, quindi, l’odio misogino e sessista non assume più forme sottili o velate, e si autolegittima in ambienti pubblici amplificando l’impatto sulle vittime e sulla società intera.