Sabato 27 settembre 2025, su Rai 1, nel programma “Uno Mattina in Famiglia”, è andato in onda un episodio che molti spettatori hanno definito “surreale”. Durante la discussione sull’annuncio di lavoro, un parrucchiere di Montesilvano che scriveva “cercasi solo collaboratori gay”, la conduttrice Ingrid Muccitelli ha rivolto agli ospiti la domanda: «Ma come si riconosce un gay?».
Sostantivazione e deumanizzazione
La forma stessa della domanda è significativa: «un gay» è la sostantivazione di un aggettivo. Trasformare “gay” in sostantivo equivale a ridurre una persona a un solo aspetto della sua identità. Linguisticamente, la sostantivazione astrarre e oggettifica: invece di parlare di «una persona gay», si parla di un “tipo” definito esclusivamente dall’orientamento. La storia linguistica è piena di meccanismi analoghi (“il disabile”, “l’immigrato”, “il trans”) che svuotano il soggetto del suo nome, della sua storia e dei suoi diritti. Prima ancora di colpire i corpi, l’esclusione si nutre delle parole.
Cosa è successo in studio e il suo impatto
A rispondere sono stati ospiti come Concita Borrelli — «Si riconosce, dai… io ho i radar» —, citando “gesti”, “parole”, “ammiccamenti” come indizi. Il tono poteva sembrare leggero, ma milioni di spettatori hanno assistito a una rappresentazione in cui l’identità sessuale veniva trattata come oggetto di indagine visiva, come se esistessero tratti comuni e riconoscibili a “tutti i gay”. Questa visione semplificata consolida stereotipi e, non solo normalizza la curiosità voyeuristica verso la vita privata altrui, ma offre elementi per la violenza.
La reazione sindacale e istituzionale
USIGRAI e il Comitato Pari Opportunità Rai hanno pubblicato un comunicato netto:
«Un’altra pagina di servizio pubblico che sarebbe ridicola se non fosse tragica. Nel programma Uno Mattina in Famiglia di sabato 27 settembre, in un siparietto tra la conduttrice Ingrid Muccitelli e l’ospite Concita Borrelli, è stata riversata addosso a chi stava seguendo il programma una sequela di stereotipi e luoghi comuni sulle persone gay.
Ci chiediamo in che modo la Rai scelga le proprie collaboratrici e i propri collaboratori e se questi vengano informati, quando firmano il contratto, che i loro compensi sono pagati anche da cittadine e cittadini LGBTQIA+.
Queste persone sono tutelate dal contratto di servizio e dal codice etico aziendale. Che provvedimenti intende prendere l’azienda?»
La presa di posizione evidenzia il problema di responsabilità pubblica: non basta stigmatizzare l’episodio sui social, serve una risposta istituzionale chiara.
La risposta non sappiamo se sia ancora pervenuta.
Stereotipi, percezione e crimini d’odio
Il nesso tra stereotipo e violenza è diretto. I crimini d’odio non richiedono che la vittima sia effettivamente parte del gruppo preso di mira: è sufficiente la percezione dell’aggressore. Un attacco può scattare perché qualcuno “sembra” gay secondo categorie stereotipate, modo di parlare, atteggiamento, abbigliamento … gli “ammiccamenti” di cui parlava la giornalista, e la violenza diventa, così, un messaggio rivolto all’intera comunità. Esempi quotidiani mostrano come persone non LGBTQIA possano subire aggressioni perché giudicate “non conformi”: la dinamica è sempre la stessa, e parte da immagini culturali consolidate anche dalla televisione.
L’annuncio e il contesto lavorativo
L’annuncio “cercasi solo collaboratori gay” è formalmente discriminatorio e al contempo sintomo di un paradosso sociale.
Formalmente, un annuncio così viola la normativa antidiscriminatoria. Il D.Lgs. 216/2003 vieta ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale in materia di lavoro, sia nell’accesso all’impiego che nelle condizioni contrattuali.
Ma la vicenda non si ferma qui. L’annuncio può essere letto anche come gesto provocatorio in un contesto dove, troppo spesso, il pregiudizio agisce in senso opposto: in cui persone apertamente gay vengono escluse o sconsigliate nei luoghi di lavoro. Basti ricordare alcuni casi noti.
Nel 2019 l’avvocato Carlo Taormina dichiarò, durante la trasmissione radiofonica La Zanzara, che non avrebbe mai assunto persone omosessuali nel suo studio legale. Lo chef stellato Paolo Cappuccio, in un’intervista, aveva detto che “in cucina non ci vogliono gay” e che “non li vorrebbe mai tra i suoi collaboratori”. In questo scenario, un annuncio “solo per persone gay” non è una provocazione contro gli etero, ma il segnale di una realtà rovesciata: dove chi è discriminato cerca spazi sicuri, dove il lavoro possa essere vissuto senza paura. Non è parità, e non è giuridicamente corretto, ma è il riflesso di una sproporzione di potere, di una storia di esclusione ancora in atto, perché chiaro che chi subisce discriminazione cerchi spazi “protetti”. La soluzione dovrebbe esserela garanzia di pari diritti e la rimozione delle pratiche discriminatorie.
Micro-violenze e responsabilità del servizio pubblico
Il problema di fondo non risiede nella singola frase, ma nel contesto che la rende possibile e accettabile. In televisione, l’ironia e la leggerezza vengono spesso usate come scudo: “era solo una battuta”, “era solo un dibattito”. Ma nel servizio pubblico, le parole non sono mai innocue. Pronunciate in diretta sulla rete ammiraglia, esse contribuiscono a costruire o demolire la percezione sociale di interi gruppi.
Espressioni come “si vede, lo capisci da come parla” non sono meri commenti di colore: sono micro-violenze, ossia forme sottili ma persistenti di linguaggio discriminatorio. Ripetute e normalizzate, trasformano l’identità delle persone LGBTQIA+ in materiale di intrattenimento, riducendo la loro esistenza a cliché. Ogni volta che uno stereotipo trova spazio in un contesto di potere, esso si radica nel senso comune, diventando parte del modo in cui la società pensa e parla delle differenze.
In un Paese in cui la legge Mancino (L. 205/1993) non include esplicitamente l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra le fattispecie tutelate, il linguaggio diventa il primo terreno di difesa della dignità. Ciò che non è protetto dalla norma deve essere custodito dalla responsabilità comunicativa.
Soluzioni
Per tutto questo, le “battute” e i “siparietti” che riproducono stereotipi non possono essere liquidati come leggerezze. In un servizio pubblico, il linguaggio ha un valore educativo e culturale: orienta, forma, legittima. Se manca una contestualizzazione o una presa di distanza editoriale, il messaggio trasmesso diventa implicitamente discriminatorio. Da qui l’urgenza del richiamo di USIGRAI e CPO Rai: non serve un semplice mea culpa, ma un impegno strutturale, formazione obbligatoria, linee guida editoriali, strumenti di accountability, per prevenire la ripetizione di queste derive comunicative.
Il contratto di servizio e il codice etico Rai impegnano l’azienda a promuovere la dignità della persona, la parità di genere, la rappresentazione corretta delle minoranze. USIGRAI e il CPO hanno chiesto chiaramente: quali provvedimenti intende prendere la Rai? Come vengono scelti e formati i collaboratori che operano in un contesto pagato anche da cittadine e cittadini LGBTQIA+?
Non si tratta solo di correggere una singola domanda in diretta: è necessario intervenire sulla grammatica pubblica che riduce e ghettizza. Formazione obbligatoria per conduttori e autori, revisioni dei format, chiarezza sul rispetto del codice etico e meccanismi di sanzione sono passi immediati. Il servizio pubblico non è neutro: o contribuisce a smantellare pregiudizi, o ne rafforza le basi.
Rovesciamo la domanda: non “come si riconosce un gay?”, ma «come si riconosce una televisione che ha bisogno di formazione sui diritti umani?». La risposta darà la misura della responsabilità civica che la Rai è chiamata a esercitare.