Nel racconto che l’informazione televisiva italiana fa del mondo ci sono interi pezzi di realtà che rimangono in ombra. Questa è la fotografia che il rapporto “Illuminare le periferie 2025”, curato e promosso da COSPE, Osservatorio di Pavia, FNSI e Usigrai, ci fornisce, la fotografia di un’informazione sugli esteri sbilanciata a favore del cosiddetto ‘Nord del mondo’: Europa, Nord America e Asia assorbono da sole il 95% dello spazio dedicato alle notizie internazionali nei telegiornali di prima serata nel 2024 e nei primi mesi del 2025. Africa, America Latina, Oceania e Antartide condividono il restante 5%.
Questo non è un semplice squilibrio geografico. È una gerarchia implicita di valore: alcune vite e alcune crisi vengono raccontate come strutturalmente importanti, altre come occasionali emergenze. L’Africa, che nel 2013 occupava ancora il 13% nella pagina degli esteri, oggi scende all’1,5%. L’America Latina passa dal 6% al 2,2%. Nessun Paese africano o sudamericano entra nei primi dieci contesti più raccontati, mentre in parallelo, Stati Uniti, Europa occidentale, Vaticano, Russia e pochi altri Paesi coprono da soli quasi l’80% di tutto lo spazio informativo.
Colpisce anche il dato sui nove Paesi dell’Africa sub-sahariana considerati prioritari per la Cooperazione italiana (Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Mozambico): tra gennaio 2024 e aprile 2025 hanno totalizzato appena 46 notizie nei telegiornali serali, contro le 180 dell’anno precedente. È un crollo del 74%, che ci dice come alcune aree del mondo con le quali comunque l’Italia ha relazioni politiche, economiche e umanitarie restano poco visibili, con una copertura mediatica sporadica
Questa invisibilità strutturale è il terreno fertile per i discorsi d’odio. Se intere regioni sono raccontate quasi solo attraverso categorie di pericolo – terrorismo, instabilità politica, flussi migratori da contenere – e mai come luoghi complessi abitati da persone con voce, storia e dignità, si rafforza l’idea che quelle popolazioni siano problema, minaccia, caos. La narrazione ridotta a cornici securitarie o emergenziali alimenta paura e disumanizzazione, e la disumanizzazione è sempre la porta d’ingresso dell’odio razzista.
Gaza: il conflitto più raccontato… senza chi lo vive
Dentro questo quadro di squilibrio c’è un’eccezione apparente: Gaza. Dal 7 ottobre 2023 alla fine di aprile 2025, i sette principali telegiornali italiani di prime time (Rai, Mediaset e La7) hanno mandato in onda 5.750 notizie sulla guerra a Gaza e sulle sue ricadute regionali. Nel primo mese dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, il tema ha occupato da solo il 59% di tutta l’informazione estera in TV. Quella di Gaza è di fatto, la crisi internazionale più coperta degli ultimi anni.
Questo dato quantitativo sembrerebbe un segnale positivo, se non fosse che il rapporto mostra che Gaza è stata raccontata, ma non ascoltata. Infatti, se nei programmi di informazione e infotainment andati in onda tra gennaio e maggio 2025 (3.470 puntate di 102 programmi monitorati), quasi metà ha parlato almeno in parte della situazione a Gaza, è anche emerso che tra le 501 persone intervenute a commentare, il 93% è di origine italiana, mentre solo pochi sono stranieri: 17 da Israele (3%), 6 dagli Stati Uniti e Palestina (1%). Inoltre, vi è una disparità tra le voci israeliane (118 minuti) e palestinesi (45 minuti), con i protagonisti principali del conflitto spesso marginalizzati nei dibattiti
Esiste sicuramente una barriera di accesso fisica e politica con Israele che non consente ai media internazionali di entrare liberamente nella Striscia, rendendo quasi impossibile avere collegamenti diretti con giornaliste e giornalisti palestinesi da Gaza e il risultato è che il conflitto viene mediato, filtrato e spiegato da chi non lo vive. Il pubblico italiano finisce così per consumare ore di dibattiti su Gaza senza quasi mai ascoltare Gaza.
Questa assenza di voci palestinesi ha un effetto è tutta ‘altro che neutro. Se la stragrande maggioranza del tempo televisivo viene occupato da chi guarda la guerra da lontano, non da chi la subisce, i rischi sono molteplici: si normalizza la violenza (“è una guerra come le altre”), si rende difficile e ‘faticosa’ la comprensione (“è complesso, impossibile capire”), dall’altro si produce una distanza emotiva che rende più facile accettare livelli estremi di sofferenza umana.
Questa dinamica incide direttamente sui discorsi d’odio attraverso il meccanismo della disumanizzazione. Se le persone palestinesi entrano nel racconto quasi solo come numeri (“morti”, “sfollati”) e raramente come soggetti che parlano in prima persona, è più facile che il dibattito pubblico scivoli verso la retorica del ‘noi’ distanti da ‘loro’, dove ‘loro’ restano entità astratte e non individui con nome, volto, famiglia. Il rapporto nota che spesso il linguaggio televisivo evita una descrizione esplicita delle responsabilità (“uccisi da…”) e tende a parlare di ‘morti’ al passivo, come se la violenza non fosse frutto di scelte politiche e militari. Questa rimozione della responsabilità è un classico meccanismo che precede l’odio: se nessuno è responsabile, nessuno è colpevole; se nessuno è colpevole, nessuna vittima è pienamente riconosciuta.
Un’altra dinamica osservata che diventa anticamera del discorso di odio è quella dell’appropriazione politica della sofferenza. Nel solo primo semestre del 2025, la parola “genocidio” è stata pronunciata 137 volte nei telegiornali di prima serata. Ma non sono i giornalisti a usarla direttamente: quasi sempre compare riportata da politici, rappresentanti di associazioni o manifestanti. Senza dare spazio alle persone palestinesi che descrivono la propria esperienza, il termine diventa bandiera identitaria più che racconto della realtà umanitaria. Questo sposta la conversazione dall’ascolto delle vittime alle dinamiche di polarizzazione politica. E la polarizzazione, nel discorso pubblico, è spesso la miccia dell’odio.
Inoltre la polarizzazione si innesta in un racconto che trascura e tace il contesto. Il conflitto viene spesso presentato come esploso il 7 ottobre 2023, mentre ha radici precedenti e complesse. L’assenza di un inquadramento temporale e fattuale contribuisce ad appiattire differenze cruciali tra popoli, governi, milizie e civili e finisce per ridurre la comprensione. In questo vuoto, il dibattito tende a estremizzarsi: si semplifica, si generalizza creando terreno fertile per narrative che alimentano ostilità.
Contrastare l’odio significa cambiare il modo in cui raccontiamo
Questo rapporto ci consegna due messaggi molto chiari.
Primo: alcune guerre e alcune comunità non arrivano quasi mai nel nostro dibattito come soggetti di diritto. L’Africa subsahariana è quasi invisibile se non c’è un interesse diretto italiano; l’America Latina entra in scena soprattutto attraverso la lente dell’ordine pubblico (“narcos”, “violenza”, “crisi”). Invisibilità e criminalizzazione parziale sono le fondamenta del razzismo mediatico.
Secondo: anche quando una crisi è al centro della scena, come Gaza, le persone che la vivono non parlano. Gaza viene spiegata dagli italiani, interpretata dagli italiani, commentata dagli italiani. Le voci palestinesi (in particolare quelle di donne, operatori umanitari, giornaliste locali) quasi non arrivano al pubblico.
Per chi lavora contro l’odio questo sono punti chiave. L’odio si alimenta dove c’è distanza emotiva, riduzione a stereotipo, cancellazione di identità e umanità. Il lavoro quotidiano contro l’odio non è solo reagire agli insulti o denunciare l’incitamento alla violenza. È anche chiedere che l’informazione includa le voci delle persone direttamente colpite, riconosca la loro piena soggettività e restituisca contesto storico, politico e umano. Senza questo, ogni “dibattito” sull’estero rischia di diventare una palestra di ostilità di parte, non uno spazio pubblico informato.
Rimettere al centro le periferie, siano esse geografiche o sociali, non è solo buona informazione. È prevenzione attiva dei discorsi d’odio.