L’odio non abita su un altro pianeta, è parte del nostro mondo, specialmente quello digitale. È tra i giovani, dentro i loro schermi, dentro le chat, nei forum, nei commenti sotto un video o nei meme condivisi a scuola.
Quando parliamo di odio online, di misoginia digitale o di radicalizzazione giovanile, spesso lo facciamo come se stessimo osservando un fenomeno distante, quasi alieno. Come se la manosfera, questo insieme di comunità virtuali antifemministe frequentate principalmente da uomini, fosse un pianeta remoto, popolato da creature incomprensibili, lontane anni luce dalla nostra realtà quotidiana.
Un luogo del nostro mondo, quello della manosfera, in cui si riuniscono giovani uomini che promuovono la misoginia, il sessismo, la supremazia maschile e istigano all’odio e alla violenza contro le donne. E questo sulla base di teorie e ideologie pseudo-scientifiche tra cui la costruzione di relazioni che oggettivano e deumanizzano le donne, discorso d’odio e frequenti riferimenti allo stupro, gerarchie di mascolinità che differenziano gli uomini che aderiscono a queste ideologie da quelli che non lo fanno, accusandoli di essere sottomessi alle donne.
Accedere alla manosfera, per le giovani generazioni, è fin troppo facile: non serve addentrarsi in forum oscuri, basta restare sui social che già frequentano ogni giorno. YouTube, TikTok, Reddit o Instagram sono spesso le porte d’ingresso, dove algoritmi e contenuti virali finiscono per trascinarli, un video alla volta, verso narrazioni sempre più sessiste e antifemministe.
Anche il linguaggio di queste nuove comunità misogine fa pensare ad un universo parallelo, tra acronimi e neologismi. A raccontarlo in modo chiaro è anche l’inchiesta di Fanpage “Ho passato un mese nella comunità Black Pill”, in cui si scopre un lessico codificato, chiuso, aggressivo, che non serve solo a comunicare ma anche a riconoscersi, escludere, umiliare. Vengono discussi temi come il controllo delle Np, acronimo di Non Persone, utilizzato per riferirsi alle donne e al potere che si cerca di esercitare su di esse. Termini come pillola rossa o black pill non sono solo meme: sono cornici ideologiche. Chi “prende la pillola rossa” sostiene di aver aperto gli occhi sulla “vera natura femminile”, convinto che il femminismo non sia altro che un sistema per opprimere gli uomini. Chi rifiuta questa visione resta “nella pillola blu”, cioè nell’ignoranza. Poi ci sono i maschi alfa (i vincenti, desiderati) e i beta (gli sconfitti), fino ai foidi o femoidi – terminologia che riduce le donne a esseri subumani.
Parole che non sono solo offensive, ma costruiscono un vero e proprio codice ideologico: disumanizzare, classificare, gerarchizzare.
Tutte dinamiche di alterità che, attraverso effetti di echo chamber, possono facilitare processi di radicalizzazione, alimentando gradualmente l’adozione di posizioni sempre più estremiste e politicizzate. In particolare, questi percorsi possono portare a collegare pratiche misogine e antifemministe proprie della manosfera con ideologie e retoriche dell’estrema destra.
Dunque, bisogna agire con e per le nuove generazioni.
Una risposta significativa arriva proprio dal Consiglio d’Europa che ha lanciato l’iniziativa Firewall della democrazia. Si tratta di un hackathon che invita giovani innovatori e innovatrici di tutta Europa a confrontarsi e collaborare per realizzare prototipi e strategie che possano concretamente combattere fenomeni come il discorso d’odio, la polarizzazione e l’esclusione digitale, proponendo soluzioni in grado di proteggere e rafforzare i valori democratici nelle nostre società.
Anche noi, come Rete contro l’odio, abbiamo compreso fin da subito l’importanza di coinvolgere attivamente le nuove generazioni nella difesa attiva di un ambiente digitale libero da espressioni e manifestazioni d’odio. Infatti, sono state promosse iniziative come #YOUTHFORCHANGE: semi contro l’odio, un progetto che ha promosso idee e campagne di comunicazione contro l’hate speech messe a punto da studenti e studentesse del corso di laurea magistrale in Comunicazione per i media, le imprese e le organizzazioni complesse presso l’Università Cattolica di Milano e del corso Media e Sicurezza dell’Università di Bologna. Va menzionato anche l’invito a condividere ricerche e tesi di laurea per dare spazio e valore all’impegno delle giovani generazioni nel contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio tramite studi e indagini.
E vogliamo continuare a dare spazio a chi appartiene alle fasce giovanili.
Per questo, con il nuovo numero della newsletter di Rete, inauguriamo un nuovo spazio sul sito dal titolo “Confronti e testimonianze”. Due parole, due pratiche che non sempre si incontrano quando si tratta di persone più giovani e temi di un certo spessore come i discorsi d’odio.
Il confronto tra una o più persone presuppone l’ascolto, che può aver luogo solo mettendo in discussione il proprio sistema di valori, annullando i pregiudizi e cambiando prospettiva; il confronto richiede anche il riconoscimento del dolore e della sofferenza altrui, la visibilità di tutti coloro che si inseriscono in quell’altro da noi.
Poi, dall’altro lato, ci sono le testimonianze di chi subisce abusi, discriminazioni e discorsi e crimini d’odio. Una miriade di storie che spesso non trovano ascolto, quella pratica che ci permette il confronto appunto.
Confronti e testimonianze non si incontrano per una serie di motivazioni: timore del giudizio o di un misconoscimento, paura di affrontare la realtà dell’odio, mancanza di spazi sicuri e accoglienti, sistemi di poteri escludenti e oppressivi, strutture sociali cieche che perpetuano errori e ingiustizie perché ne oscurano le vittime.
Cosa unisce queste due pratiche? L’ascolto. È l’atto che consente da un lato il dialogo aperto, in cui le differenze si incontrano senza annullarsi, e dall’altro di accogliere la voce di chi porta il peso di esperienze marginalizzate, discriminazioni, ferite spesso ignorate.
Ascoltare davvero le nuove generazioni significa andare oltre la superficie dei contenuti che producono o condividono. Significa riconoscere che anche dentro un meme, un commento, una parola codificata può esserci una domanda di senso, un’urgenza, una frattura. Ascoltare le fasce più giovani vuol dire non solo offrire uno spazio sicuro, ma anche dotarsi degli strumenti per comprendere i loro linguaggi, le loro paure e le loro visioni del mondo. È in quell’ascolto che può nascere una risposta condivisa all’odio, capace di trasformare il digitale in un territorio di relazione, riconoscimento e cambiamento.
E proprio perché l’odio non abita su un altro pianeta, ma vive fra di noi, riconoscerlo e combatterlo non è una scelta opzionale. È un impegno che ci chiama a costruire, insieme alle nuove generazioni, un ambiente digitale più consapevole, aperto all’ascolto e al confronto con le pluralità che lo compongono.