a cura di Ilham Arif
In Palestina, nella notte fra il 17 e il 18 marzo, un attacco ha infranto un fragile cessate il fuoco, mietendo altre vittime innocenti.
Oltre 400 morti e più di 560 feriti, è il bilancio solo della prima notte di ripresa delle ostilità.
Ad oggi, poco più di un mese dopo, la quota dei “danni collaterali” è salita a 1522 martiri e 3834 feriti
Una serie di raid aerei ha messo in pericolo gli stessi ostaggi israeliani, che sono proprio il motivo dell’attacco. È un paradosso crudele: le stesse vite che avrebbero dovuto essere protette sono ora in pericolo, in un contesto in cui l’esistenza sembra aver perso il suo significato. Il caos della guerra ha travolto ogni logica di umanità, riducendo le vittime a numeri e statistiche, eppure dietro ogni cifra c’è una storia, un volto, una vita spezzata.
Dal 7 ottobre 2023, oltre 51.300 palestinesi hanno perso la vita, e tra questi ci sono almeno 13.000 bambini, molti dei quali neonati, che non hanno conosciuto nulla se non la violenza di una guerra che li ha inghiottiti ancora prima di dar loro il diritto di vivere. Ogni bambino morto sotto i bombardamenti, ogni vita spezzata tra le macerie, è un colpo al cuore dell’umanità. Questi bambini non erano solo vittime della guerra, ma della nostra indifferenza, della nostra complicità nell’ignorare il loro dolore, nel chiudere gli occhi davanti alla loro sofferenza.
Mentre il mondo islamico celebrava il mese sacro del Ramadan, simbolo di pace, riflessione e purificazione, i palestinesi sono costretti a vivere in un incubo senza fine. Le loro case, distrutte. Le loro famiglie, separate. Le loro speranze, sventolate via dai venti della guerra.
La luce della solidarietà sembra essere spenta, mentre l’elettricità è tagliata, le forniture umanitarie sono bloccate, e ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza.
Nel mese in cui i musulmani di tutto il mondo pregano per la pace, Gaza è uno dei luoghi più lontani da essa.
Qui, ogni giorno è un atto di resistenza, una lotta disperata per una vita che non smette di essere minacciata.
Eppure, l’Occidente continua a voltarsi dall’altra parte, incapace o troppo impegnato a giustificare l’ingiustificabile. Il pregiudizio islamofobo che permea le nostre società giustifica il silenzio di fronte al dolore dei palestinesi. La narrazione dominante, che riduce i palestinesi a numeri, a nemici, a “altro” da noi, fa sì che le loro sofferenze siano percepite come meno gravi, meno importanti, come se le loro vite non avessero lo stesso valore delle altre. La loro sofferenza non è solo ignorata, ma viene anche minimizzata, giustificata, o addirittura criminalizzata.
Quella che dovrebbe essere una tragedia universale, la morte di innocenti, diventa una questione da relegare nelle pagine dimenticate della storia.
Mentre i palestinesi lottano per la loro sopravvivenza, i leader politici mondiali sembrano più interessati a difendere l’indifendibile che a fermare la violenza. Le promesse di pace rimangono parole vuote, mentre i diritti umani vengono calpestati senza vergogna. La proposta inquietante di Donald Trump di trasformare la Palestina in una “riviera dell’Oriente”, espropriando ancora una volta il popolo palestinese della sua madrepatria, è l’ennesimo esempio di un’ingiustizia che va avanti da decenni. Ogni piano che cancella la terra dei palestinesi, ogni strategia che legittima l’occupazione, è un ulteriore colpo alla loro dignità.
L’incoerenza è evidente. La giustizia sembra essere selettiva. E i diritti umani sono meno validi per alcuni che per altri. È una scelta pericolosa, che ci costringe a guardare con il cuore pesante, domandandoci come siamo arrivati a questo punto.
La Palestina è ferita. Ogni giorno, ogni ora, la sua gente paga il prezzo di un mondo che ha scelto di chiudere gli occhi e di ignorare. Ma la sofferenza palestinese non può e non deve essere silenziata. Non si può più rimanere in silenzio di fronte al genocidio che si sta consumando sotto i nostri occhi. Le vite di queste persone sono sacre, come lo sono quelle di ogni altro essere umano. La giustizia non può essere selettiva. Non possiamo più girarci dall’altra parte.
La solidarietà non deve conoscere confini, né etnici, né religiosi. La Palestina chiede giustizia, e il mondo ha il dovere di rispondere.
Finché, invece, continueremo a voltarci dall’altra parte, quella ferita continuerà a sanguinare. E un giorno, quando questa guerra sarà (forse) finita, il mondo dovrà rispondere alla domanda più dolorosa: cosa abbiamo fatto mentre una popolazione intera veniva cancellata?